Summer Camp 2017 blog

Venerdì 28 – sabato 29 lug­­­­lio

Ed ecco che l’avventura comincia: alcuni di noi arrivano ad orari diversi nella calda Tel Aviv. Un taxista ci porta dall’aeroporto al Dheisheh Camp, a sud di Betlemme, per raggiungere gli altri volontari che hanno deciso di esplorare le terre palestinesi con qualche giorno d’anticipo. A piccoli gruppi, siamo accolti da Ihab davanti all’Ibdaa Cultural Center, che si trova subito a destra arrivando dalla strada principale. Gli ultimi volontari arrivano a tarda notte a causa di un volo cancellato… Arriviamo, saliamo nelle nostre rispettive stanze, facciamo il minimo indispensabile per sistemarci e ci buttiamo tutti a letto, più o meno consapevoli del luogo in cui ci troviamo.

Con l’arrivo della mattina, tutto si fa un po’ più chiaro. Dalle finestre dell’ultimo piano dell’Ibdaa vediamo i tetti del Dheisheh refugee camp: una distesa di tetti grigiastri, ammassati l’uno accanto all’altro, e qualche macchia nera in superficie, che poi scopriamo essere le taniche contenenti l’acqua. La domanda che sorge per molti è: ma dove sono le tende? In effetti, il campo profughi sembra una vera città. Scopriamo che gli abitanti ci vivono talmente da tanto tempo che nel passare degli anni, a cominciare da piccole stanze cementate di 9 metri quadri per famiglie intere, hanno potuto costruire veri palazzi.

Jihad, la nostra guida, ci porta a visitare il campo: è mattina e fa caldo. Saliamo le stradine strette del campo, e la guida ci mostra le strade principali, una scuola della zona C, i murales sulla storia della Palestina e sui martiri palestinesi uccisi dalle milizie israeliane. Saliamo sul tetto di un edificio e miriamo la vista del campo dall’alto. L’occhio cade immediatamente sulle taniche d’acqua poste sul tetto di ciascuna casa, necessarie per il fabbisogno delle famiglie che ci abitano.

Jihad ci spiega la storia del campo attraverso le costruzioni e ci indica le colonie israeliane e il muro di divisone tra il campo e il resto del territorio. Con il bus ci rechiamo anche al Banksy museum (situato all’interno dell’hotel inaugurato da Banksy quest’anno). Subito ci sembra di arrivare in un luogo più turistico. Visitiamo il museo che ci fornisce qualche documentazione sulla storia della costruzione del muro e delle basi storiche che hanno comportato la sua costruzione. Dopo la visita, andiamo nel centro della città di Betlemme, la città vecchia. Jihad ci porta all’interno della chiesa della natività che è in parte in ristrutturazione per via delle distruzioni provocate dai soldati israeliani durante la seconda intifada, nel 2002. Visitiamo l’interno della chiesa. Incensi, candelabri e candele, scendiamo fino alla grotta dove qualche visitatore bacia la pietra della grotta natale e nel frattempo, scatta qualche foto. Verso le 15, per pranzo, ci rechiamo al Fenic center che si trova nel campo, dove veniamo accolti con un buon pranzo a base di riso e lenticchie, yogurt, cipolle caramellate e un’insalata fresca. Dopo pranzo, è l’ora di organizzarci sui vari workshops ricreativi: cerchiamo di svegliarci con qualche gioco e attivato il corpo e la mente siamo pronti per la formazione in vista di lunedì, veniamo suddivisi in 4 gruppi in base alle fasce d’età dei bambini, ciascun laboratorio avrà due responsabili che si occuperanno dell’organizzazione e dei materiali necessari. Tornando dal Fenic center, Dheisheh camp ha un’altra luce: è più gialla, il sole sta tramontando e la temperatura diventa più gradevole. Il campo è anche molto più animato: vediamo un matrimonio, dei bambini e dei passanti con i quali scambiamo qualche marhaba (che può tradursi come un “ciao” o “salve”). Per cena, torniamo al centro di Betlemme per una deliziosa cena con una vista sulla città. Torniamo all’Ibdaa per la notte, pronti per un nuovo giorno altrettanto ricco di avventure.

Vista dall'alto del Deishes Camp (Bethlehem)

Vista dall’alto del Deishes Camp (Bethlehem)

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Naji Al-Ali rappresenta un bambino scalzo, mal vestito e con le mani dietro la schiena, la sua postura si deve al suo sdegno nei confronti di quello che sta accadendo alla sua terra.

Colonia israeliana nei pressi di Betlemme

Colonia israeliana nei pressi di Betlemme

Banksy Museum (Betlemme)

Banksy Museum (Betlemme)

Domenica 30 Luglio

Un’altra mattina all’Ibdaa. Un caffè veloce, e ci facciamo portare ad Aida Refugee Camp. All’entrata del campo c’é una grande porta con una chiave al di sopra della lunghezza di dieci metri. Questa é la chiave che per loro simboleggia il ritorno. “Return” é il termine che appare di più sui vari murales. Munther, la nostra guida, ci accoglie e ci fa girare qualche strada del campo. Dall’ultimo piano di un’abitazione vediamo il lungo muro che separa il campo dalla colonia vicina. Munther ci mostra i murales narrandoci qualche storia dei rifugiati, i loro sequestri e le loro lunghe detenzioni nelle prigioni israeliane. Ci racconta della morte di Abdul Shadi, bambino palestinese ucciso dalle milizie israeliane che giocava spensierato con i suoi amici quando una pallottola l’ha centrato. Jihad ci racconta con disappunto la storia del campo, che, da semplice insieme di tende si é trasformato in una pesudo città in cui poi i rifugiati sono rimasti anni e anni. Questi ultimi raccontano la loro condizione attraverso la pittura murale e, per Munther e qualche altro, attraverso queste visite d’informazione a cui partecipiamo e che fanno parte della loro posizione di opposizione: la resistenza non violenta. In seguito, ci portano all’intero di un’edificio. Munther ci mostra alcuni video e alcune foto di attacchi e sequestri da parte dei soldati israeliani. Sono documenti importanti, perché é molto difficile per loro testimoniare cio’ che vedono e subiscono quasi all’ordine del giorno. All’uscita, possiamo vedere un paio di soldati israeliani in lontananza: ci controllano. Torniamo all’Ibdaa e in fretta prepariamo le valigie: é il momento di partire per il luogo dove si svolgerà il campo, il villaggio di At-tuwani. Durante il tragitto, vediamo in lontananza le diverse colonie israeliane verso Hebron, e il secco e pietroso deserto del Negev. Dopo esserci persi un po’ per le strade, arriviamo finalmente ad Al-tuwani. Qui ci accolgono gli abitanti del villaggio, tra i quali Nasser e Hafez, con cui ci ritroveremo spesso per le diverse visite ai luoghi limitrofi. Pranziamo con il solito riso, pane, hummus e insalata. Tutto delizioso. Mentre qualche volontario già gioca con qualche bambina di Altwani, volontari italiani e palestinesi si organizzano per l’inizio del campo. Qualche problema logistico a livello degli spazi, ma la buona volontà di tutti ci porta a trovare sempre delle soluzioni. Il pomeriggio lo passiamo ad organizzare gli spazi dove dormiremo.

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Murales a Aida Refugee Camp

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Vista dall’Aida Camp

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La chiave del ritorno – Aida Camp

I volontari verso At-Tuwani

I volontari verso At-Tuwani

Lunedì 31 Luglio – Giovedì 3 Agosto

Lunedì iniziamo il vero e proprio summer camp. Veniamo suddivisi in 4 gruppi per fasce d’età dai 3 ai 16 anni e facciamo due laboratori al giorno inframezzati dalla merenda, e inauguriamo e portiamo a termine la giornata con canti e balli.

I bambini, dai più piccoli agli adolescenti, hanno voglia di giocare e fare nuove esperienze. I loro occhi sono affamati di vita e dai loro sorrisi possiamo capire che apprezzano il nostro impegno!

Dipingono il loro autoritratto, disegnano ad occhi chiusi o tracciano la sagoma di un amico su un foglio posto per terra, giocano a memory gigante, con i giornali riciclati fanno delle palle o dei birilli ricoprendo di carta e vinavil le bottiglie usate, il tutto viene poi dipinti. I bambini si divertono molto anche a colorare il nostro viso senza tralasciare la decorazione delle maglie del summer camp su cui ci scriviamo a vicenda i nostri nomi in italiano e in arabo. I bambini imparano anche piccoli trucchi di magia grazie alla presenza di Marco, in arte “Il Pimpa”, che per loro imbastisce anche due spettacoli durante i quali alcuni dei bambini vengono coinvolti nelle magie. Tutti estasiati seguono attenti lo spettacolo.

I giorni procedono alternando la mattina con i bimbi e nel pomeriggio oltre al riposo dedichiamo un po’ di tempo alla conoscenza e alla scoperta del territorio e delle altre associazioni, come Operazione Colomba, che si impegnano ad aiutare i cittadini di At-tuwani.

Per noi quest’ultima settimana si é già conclusa. Ci aspetta un weekend pieno di nuove esperienze in territori palestinesi. Il prossimo weekend visiteremo Gerico, il monastero dei 40 giorni, il mar morto, la Jordan Valley (dove incontreremo l’associazione Jordan Valley Solidarity), Nablus, Jenin e il the Freedom Theatre. Vi lasciamo con qualche foto di questa prima fase del summer camp scattate dai volontari.

Ela al lekaa!

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Giovedì 3, Venerdì 4, Sabato 5 Agosto – Valle del Giordano, Jenin, Nablus.  

Questa prima settimana di laboratori si è conclusa. Giovedì mattina partiamo alla volta del Giordano: ci carichiamo sul nostro pulmino, un po’ stanchi ma pronti per esplorare nuovi territori della palestina. La temperatura si alza mentre ci dirigiamo verso le calde terre del Giordano. Godiamo di un panorama mozzafiato lungo la strada, dove sostiamo per qualche pausa e ammiriamo le colline secche et giallastre della Palestina, tra cui, ad un certo momento, possiamo ancora intravvedere la cupola d’oro dell’antica Gerusalemme. Già percorrendo le strade che portano al Giordano ci rendiamo conto di quante sono le colonie israeliane che giorno dopo giorno continuano a svilupparsi in lungo e in largo presso i territori palestinesi. Visitiamo il monastero dei 40 giorni, vicino a Gerico, dove, secondo il vangelo, Gesù digiunò per quaranta giorni e fu tentato dal demonio. Il monastero si erge su un promontorio secco e rossastro, raggiungibile solo tramite ovovia. Decidiamo, motivati, di visitare il luogo sacro nonostante la caluria crescente e minacciante. Alcuni di noi si recano al mar morto per rinfreschi e cure argillose, e poi il nostro viaggio continua tutti insieme verso la Jordan Valley Solidarity Campaign, un’associazione volontaria palestinese che, con l’aiuto della comunità internazionale, sostiene e cerca di proteggere gli abitanti dell’area C della valle del Giordano, dove, dal 1967, l’occupazione israeliana cerca di annettersi i territori e dove le violazioni ai diritti umani degli abitanti sono all’ordine del giorno…

I membri del gruppo della Jordan Valley Solidarity Campaign ci accolgono calorosamente in un capannone fatto di terra e paglia. Questo capannone fu costruito dai volontari palestinesi in un giorno soltanto: se i soldati israeliani la demoliranno, loro sapranno come rifarne una nuova rapidamente. Seguiamo attenti i racconti della storia dell’associazione e del contesto sociale e politico della Valle del Giordano, nonostante il caldo soffocante stia invadendo il capannone durante le ore più soleggiate della giornata.

Verso il tardo pomeriggio, riprendiamo il nostro pulmino che ci porta a Nablus, nel Nord della Palestina. I paesaggi, ancora, ci meravigliano: qui al Giordano le terre sono più omogenee e rossastre – diverse dal giallo chiaro delle colline rocciose di Hebron, dislocate da un susseguirsi regolare di palme verdi tra le quali, in lontananza, possiamo intravvedere il confine con i territori Giordani. Arriviamo a Nablus quando è già notte. Appoggiamo i nostri zaini al Nablus Youth Hostel, un delizioso ostello caratteristico che si trova nella parte nuova della città. Qualche doccia rapida e ci regaliamo una cena tipicamente palestinese in un buon ristorante nel centro della città nuova.

La sosta è comunque breve. Già venerdì mattina ripartiamo, questa volta diretti a Jenin. Non facciamo in tempo di visitare la città poiché ci dirigiamo direttamente al Freedom Theatre, che si trova all’interno del campo profughi. Il Freedom Theatre fu creato nel 2006 da Juliano Mer-Khamis, che, seguendo le orme di sua madre Arna, fondò questo centro culturale con l’obiettivo di dare agli abitanti del campo profughi una possibilità di formarsi, di educarsi, di sapersi esprimere attraverso diverse attività artistiche e, allo stesso tempo, costruendo un polo di opposizione non violenta all’occupazione israeliana. Questo centro artistico-politico ha saputo ottenere, nel corso degli anni, sempre più sostegno dalla parte degli internazionali ed una certa notorietà attraverso tutto il mondo.

L’atmosfera dura e opprimente del campo profughi di Jenin è percepibile da subito. Il Freedom Theatre rappresenta uno sfogo creativo, come anche le diverse pitture murali che si trovano all’ingresso del Teatro e un po’ ovunque all’interno del campo profughi e che denunciano l’occupazione attraverso motti e disegni, testimoniando qualche evento importante dall’inizio dell’occupazione ad oggi: << We will return >>, << Freedom for Palestine >>, << 1949 >>, << The right to return for all generations >> …

I profughi qui vivono in una condizione allarmante: è uno dei campi profughi più popolati della palestina. Gli abitanti vivono in modo promiscuo, in spazi stretti, da generazioni e generazioni, rinchiusi e controllati e dove sparatorie, lacrimogeni e scontri armati sono all’ordine del giorno. Poche sono le sere in cui questi abitanti possano ritrovare una pace senza che ci sia l’arrivo dei carri israeliani armati. Le generazioni che si sono succedute in questa realtà hanno costruito un’opposizione forte e determinata. Colpisce il cimitero dei martiri, all’interno del campo, dove sono stati sepolti coloro che sono morti per mano di Israele e nel nome della causa palestinese: persone spesso giovanissime, di cui le foto appese a forma di poster diventano mezzo di commemorazione e di lotta.

Per pranzo siamo invitati dal nostro simpaticissimo autista Ali, che abita nei dintorni di Nablus. La sua famiglia ci prepara un piatto tipico a base di pollo, riso e verdura che hanno preparato per ore e ore. Con la pancia piena visitiamo nel pomeriggio la città vecchia di Nablus, dove Hihab ci narra qualche fatto storico e qualche evento dell’occupazione che non ha risparmiato neanche la sua città natale. Nablus è costruita quasi interamente in pietra bianca, visibile ovunque all’interno delle stradine della città vecchia. Ci fermiamo per qualche compera a base di sapone artigianale e zaatar. Una sosta breve, perché torniamo ad At-twani la notte stessa, dopo un lungo viaggio nel nostro solito furgoncino.

Vista Panoramica

Vista Panoramica

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Jordan Valley Solidarity Campaign

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The Freedom Theatre

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Jenin Refugee Camp

Nablus – la città nuova

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Nablus – la città vecchia

A casa di Ali

A casa di Ali

Domenica 6 Agosto – Giovedì 10 Agosto – Ritorno al Summer Camp

Ed ecco che si ricomincia la seconda parte del Summer Camp, per cinque lunghi e intensi giorni. Sveglia alle 7, colazione a base di pane arabo, olio d’oliva, hummus e zaatar e i bambini che già ci aspettano pronti all’interno del cortile per le attività. I bambini sembrano più a loro agio, ormai ci conoscono. La loro energia è inversamente proporzionale alla nostra, ma è anche contagiante… Nei gruppi  riconosciamo qualche nuovo viso, arrivato da At-twani o dai villaggi circostanti. I laboratori riprendono, con attività diverse e con il contributo di Roberto, clown arrivato direttamente da Milano per aiutare nelle diverse attività con i bambini. Durante i pomeriggi della settimana, alcuni dei volontari costruiscono – con i materiali rimasti per le attività per i bambini e qualche riciclaggio – pupazzi di paglia e bottiglie, polveri colorate a base di amido di riso, una pignatta gigante fatta di cartone e pittura, un set da gioco da bowling e altri giochi in vista della festa finale al termine del Summer Camp.

Altri volontari invece visitano alcuni villaggi nei dintorni di At-twani, come Tubas et Susya, dove le realtà dei palestinesi sono ancora diverse e dove la presenza della comunità internazionale è meno forte che ad At-twani. Queste località sperdute in mezzo alle colline palestinesi sono raggiungibili spesso solo via macchia percorrendo strade sterrate secondarie per non attraversare le colonie israeliane che si sono sviluppate nel tempo adiacenti ai villaggi palestinesi. Questi villaggi sono fatti di raggruppamenti di tende dove gli abitanti non possono costruire e vivono di pane, formaggio, latte e dei loro allevamenti. Le colonie israeliane circostanti prendono lo stesso nome del vecchio villaggio palestinese che fu distrutto per essere poi insediato. A Susya, Roberto, il nostro clown, fa uno spettacolo con i bambini del villaggio. È bello vedere come ovunque, in qualsiasi situazione possiamo trovarci, con la sua storia e il suo vissuto, i bambini siano sempre in grado di potersi spogliare della loro condizione. Sono sempre pronti per guardare altrove, lasciarsi andare, coinvolgere, esprimere.

Nelle ultime giornate del summer camp molte delle attività si sono concentrate sulla lettura. Grazie alla donazione da parte dell’associazione Ibby Italia, un sacco di libri con bellissime illustrazioni sono ora a disposizione dei bambini del villaggio. Letture di gruppo sotto l’albero, animazioni, preparazioni per la festa finale sono state le maggiori attività durante questa ultima fase del Summer Camp.

Giovedì è l’ultimo giorno del camp. Cerchiamo di comunicare ai bambini, grazie all’aiuto dei nostri volontari palestinesi, che la fine del summer camp è ormai alla porte e che gli aspetta però una festa finale, organizzata per la giornata di sabato. I più grandi sembrano aver capito, e si rattristano. Anche noi siamo commossi, e quest’ultima giornata la viviamo con un po’ di malinconia.

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Al termine dei laboratori con i bimbi, facciamo le valige e ci dirigiamo verso Hebron. Hebron è la città palestinese in cui l’occupazione israeliana è onnipresente e molto aggressiva. In principio esisteva solo quella che oggi chiamano Hebron vecchia (H1) che poi è stata occupata dagli israeliani, e di conseguenza molti arabi palestinesi si sono trasferiti nei pressi della città, dove si è così sviluppata la nuova Hebron (H2). Nel 1994, ci racconta Abed, la nostra guida e compagno di viaggio, un israeliano entra nella moschea di Abramo di Hebron e uccide 29 musulmani intenti alla preghiera. Nei successivi due giorni la moschea, per il volere del governo israeliano, rimane chiusa. Quando finalmente la riaprono i musulmani si ritrovano 3 check- points intorno al loro luogo di culto e la moschea divisa in due. Gli israeliani si sono così appropriati di una parte della moschea trasformandola in una sinagoga. Da entrambe le parti, musulmana ed ebraica, si può osservare la tomba del patriarca Abramo.

Per accedere a Al-Shuhada street, dove Abed vive, dobbiamo attraversare un check-point. Attraversiamo prima dei tornelli poi il controllo dei passaporti. Ci ritroviamo davanti a ragazzi giovanissimi armati che guardano per qualche minuto la foto dei passaporti e quella del visto, e poi ci lasciano andare. Entriamo così in Al-Shuhada street e ci rendiamo conto che qui l’umanità intera ha fallito: negozi a cui sono state sprangate le porte, stelle di David per contrassegnare il territorio, un panorama deserto in piena giornata settimanale. Abed ci racconta che una volta quell’area era una zona viva, ricca e che ora la maggior parte delle persone se ne sono andate poiché la vita é diventata insostenibile. Capita a volte che chiudano il check-point, così che le persone sono costrette ad aspettare ore per tornare a casa o per uscire per far la spesa. I pochi abitanti palestinesi che sono rimasti non possono portare nulla all’interno per, ad esempio, ristrutturare le case o anche semplicemente ridipingerle. Ci viene narrato che due donne hanno partorito proprio al check-point, davanti agli occhi dei militari che non le facevano uscire. Le ambulanze non possono accedervi.

Nei pressi di Shuhada street, nella parte araba, si trova un mercato sopra cui hanno dovuto mettere delle grate per proteggersi dai sassi e dagli oggetti che vengono tirati giù dai coloni che vivono proprio nei piani alti palazzi intorno alle bancarelle. Abed ci racconta che spesso vengono lanciate anche bottigliette contenenti urina o liquidi chimici. Un ragazzino a causa di una di quelle bottigliette ha perso la vista. Ad un certo punto, entriamo in una piccola corte, dalla quale si può vedere, intorno ad un filo spinato, il vecchio mercato dell’oro, oggi il mercato della spazzatura. Una parte della corte non ha la grata, e dopo poco ci arrivano un paio di sassi addosso e siamo costretti a spostarci velocemente.

Shuhada street è un non luogo, le oppressioni dei coloni stanno mettendo a dura prova i cittadini che sempre più si trasferiscono in posti più sicuri e confortevoli. Molte strade hanno già passato questa vera e propria colonizzazione e ora sono deserte e disabitate oppure si sono trasformate in colonie.

La serata si conclude con una meravigliosa cena a casa di Abed, l’ultima di Shuhada street prima del check-point. La madre di Abed si commuove nel dirci che da tempo non aveva ospiti perché la maggior parte delle persone locali sono interdette da quella zona. Ci racconta che è stata portata in galera 25 volte, in più occasioni i militanti sono entrati in casa sua cercando di cacciarla e appropriarsi dell’immobile: deve essere molto ambito perché si trova a qualche metro dal museo dei coloni. Come il mercato, anche la sua casa ha una grata per proteggersi dal lancio di sassi e quant’altro. Per sicurezza la signora ha inoltre posto un telo di nylon sulla grata, in questo modo non si vede il cielo…gli israeliani qui l’hanno rubato.

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Al-Shuhada Street

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Al-Shuhada Street

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Venerdì alcuni di noi scelgono di andare a Wadi Fukin, un villaggio che da cui la vista panoramica é una delle più opprimenti che abbiamo mai visto: il villaggio è letteralmente accerchiato da ammassi in cemento di colonie, blocchi che si susseguano a ritmo cavalcando la valle da ogni lato, e non lasciando spazio a nessuna natura di emergere. Attualmente Wadi Fukin è 1/5 della grandezza rispetto a ciò che era in origine: i coloni progressivamente si sono appropriati della maggior parte delle terre della popolazione locale, e continuano a espandersi. La colonia è nata nel 1985 su una terra confiscata, hanno iniziato con 10 case per poi arrivare ad una popolazione di 30 mila abitanti. I cittadini di Wadi Fukin vivevano e provano a sopravvivere tuttora di agricoltura, di conseguenza per loro la terra è molto importante. Ad oggi, molti dei giovani che non riescono a sostenersi con il lavoro nei campi sono costretti a lavorare come operai per gli israeliani.

Ci viene presentato Giorgio, un signore palestinese che parla perfettamente italiano perché trasferitosi per motivi di studio a Pisa. Giorgio ci tiene a raccontarci che dal ‘48 al ‘72 i cittadini di Wadi Fukin, cacciati dalle loro case e costretti a vivere nel campo profughi di Deisha, non potevano tornare a vivere al villaggio ma era concesso loro di continuare a coltivare la terra. Si recavano quindi giornalmente nei loro terreni per non abbandonare le coltivazioni. Dopo svariati tentativi e molte pressioni sul governo israeliano sono riusciti ad avere il permesso per tornare ad abitare il villaggio e hanno ottenuto la concessione di costruire sul territorio, ma per un mese soltanto. Poi le costruzioni sarebbero dovute cessare. Sono varie le supposizioni fatte in merito a questa concessione, data dal governo israeliano ai profughi di Wadi Fukin. Giorgio c’è ne racconta un paio: forse era perché il sovraffollamento del campo di Deisha poteva essere fonte di continue rivolte sempre meno controllabili da Israele e che, Wadi Fukin, essendo una zona abbandonata, poteva quindi facilmente costituire un buon rifugio per i guerriglieri palestinesi. Con Giorgio incontriamo anche alcuni ragazzi italiani dell’associazione Overseas che accompagnano quotidianamente gli agricoltori nei campi. La loro presenza è un deterrente per possibili attacchi da parte dei coloni, ed è anche un modo per aiutare gli abitanti nei lavori più impegnativi poiché l’età media delle persone che lavora la terra qui è molto alta.

Il prossimo appuntamento è per la sera nel centro di Betlemme per incontrare il giornalista Michele Giorgio, e per organizzarci sulla festa che l’indomani ci riporterà ad At-tuwani.

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Le colonie intorno a Wadi Fukin

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Sabato 13 Agosto – Il giorno della festa

Sabato mattina partiamo prestissimo da Betlemme. Arriviamo ad At-twani e prepariamo le diverse attività per la festa e il percorso di giochi per i bambini. La festa si svolge all’interno della scuola, dove c’è un immenso cortile dove costruiamo un percorso di giochi per i diversi gruppi dei bambini: un set da bowling fatto di palline e bottiglie ricoperte di carta da giornale e pittura, un percorso con scorte di ruota, un canestro e dei percorsi disegnati sul pavimento, e ancora cartelloni verso cui lanciare la pallina per ottenere dei punti. Due clowns vengono direttamente da Nablus per animare i bambini nel mezzo della festa. Alcune foto del campo sono appese nei muri della scuola, tanto quanto enormi disegni realizzati dai bambini durante i diversi laboratori artistici svolti durante le due settimane di Summer Camp. Fiocchi di carta, coni colorati, musica, giochi. Quest’ultima festa finale narra e riassume le diversità creative dei volontari che durante queste due settimane si sono impegnati in modo determinato ed energico ad offrire ai bambini un tempo che, sebbene corto, offriva loro un modo per occuparsi, lavorare ed imparare insieme creando. L’obiettivo non è stato certamente solo quello di fornire una base di sfogo, ma è stato quello di poter creare una storia, attraverso queste giornate di ateliers ed attività ricreative, in cui tutto ciò che si é stato fatto lo si è voluto concludere e in cui molto del materiale che è stato raccolto è stato riusato, e in cui, in occasione della festa finale, tutto quello che si è creato si è potuto rivedere e rivivere con occhi più maturi non solo grazie alla soddisfazione individuale dei bambini, ma anche dalla loro consapevolezza del fatto che tutto ciò é stato prodotto grazie alla loro collaborazione e dalla loro perseveranza. Alla fine della festa, coroniamo questi lunghi e intensi giorni con balli e polveri colorate. Il campo è ormai finito ed è  tempo per noi volontari e per i bambini di At-twani di riviverlo con gli occhi della mente. 

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Il blog é stato scritto da due volontarie del gruppo, una delle quali ha anche scattato le foto che vedete in questo blog.